DIGITALE PURPUREA
(G. Pascoli)
‹Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfumes, les couleurs et les sons
se répondent
›
(Ch. Baudelaire, Correspondances, vv. 5 -8)
‹A noir, E blanc,
I rouge
, U vert, O bleu: voyelles,
je dirai quelque jour vos naissance latentes :
A, noir corset velu des mouches éclatantes
qui bombinent autour des puanteurs cruelles,
golfes d'ombre ; E candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois, blancs, frissons d'ombelles :
I
, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
dans la
colère ou les ivresses pénitentes
;
U, cycles, vibrements divins des virides,
paix des pâtis semés d'animaux, paix des rides
que l'alchimie imprime aux grands fronts studieux ;
O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges :
O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux !›
(A.Rimbaud, Voyelles)
Se i due testi di Baudelaire e di Rimbaud rappresenteranno per le successive elaborazioni delle poetiche simboliste e decadenti una sorta di ineludibile riferimento programmatico, tracciando il percorso della poesia contemporanea, in ambito italiano e più specificamente pascoliano la lirica più vicina alle indicazioni in esse contenute è Il Miracolo, pubblicata per la prima volta in Myricae (ed. terza, 1894). La vicinanza , come acutamente rileva G. Nava, è più per analogia di sensibilità che per derivazione di lettura diretta (Pascoli non conosceva l’opera di Rimbaud semplicemente perché essa penetrò in Italia assai più tardi del 1894, agli inizi del Novecento; forse però può aver conosciuto la Symphonie en blanc majeur di Th. Gautier). Nella lirica, che si può leggere nei documenti (clicca qui per visualizzarli), ognuna delle cinque strofe presenta gruppi di immagini riunite per associazione intorno ad un colore fondamentale per ogni strofa, dal bianco iniziale al verde, all’azzurro, al rosso, per approdare al nero, seguendo una gradazione cromatica che passa dai toni più delicati a quelli più accesi e infine ai più cupi. Ai colori si correlano strettamente i suoni con un procedimento sinestetico assai rigoroso: ad ogni colore corrisponde il ritorno ricorrente della vocale tonica in rima (al bianco la "a"; al verde la "e", alternata con la "i"; all’azzurro ancora la "e", alternata con la "o"; al rosso la "o", con alternanze minori di "a" e di "i"; al nero la "u", con alternanza minore della "e").
Il rigore strutturale del testo testimonia bene della consapevolezza dell’impiego sinestetico, confermata da un abbozzo del "Miracolo" in cui si afferma: "senti l’ebbrezza d’un color che odora / senti d’un raggio il fremito canoro". Dal punto di vista tematico la lirica sviluppa il motivo delle virtù magiche-allusive dell’arte, che rende veggenti i ciechi, motivo già presente ne "Il Mago", che nella sezione di Myricae "Le gioie" del poeta precede il "Miracolo", e intende rappresentare la parabola e la ciclicità dell’esistenza umana tramite immagini cromatiche, dal bianco che connota la staticità e l’attesa serena dell’infanzia dei versi 2 – 6, al cupo del nero che è immagine palese della morte (da notare sono gli ultimi tre versi: "dentro i palazzi, dentro gli abituri, / al buio, accanto ai grandi letti neri, / dormono nere e piccole le culle", dove l’avvicinamento tra morte e vita è restituito con magistrale impiego di immagini e colori).
Ogni strofa, inoltre, eccetto l’ultima, è aperta dal sintagma verbale, "vedeste" con l’esplicita intenzione da parte del poeta di far convergere l’attenzione di chi legge sullo svolgimento cromatico – simbolico - esistenziale della lirica. E’ qui, senza riserve, attestata la funzione simbolica dei colori, ognuno dei quali nell’intera raccolta di Myricae ha una funzione specifica e caratterizzante e nello stesso tempo interagisce con gli altri, suggerendo le oscillazioni o le dominanti tra sensazioni e sentimenti diversi. Il colore "rosso", che è l’oggetto della presente indagine, ritorna frequentemente in Myricae (10 volte, con l’aggiunta di 2 occorrenze della voce verbale "rosseggiare", di 1 del verbo "arrossare" e di 1 del sostantivo "rossor") ed è il più idoneo all’espressione di sentimenti forti e contrastanti, consci ed inconsci, che agitano l’animo di Pascoli, il colore delle passioni, dei sensi sconvolti e del sangue, sulla traccia indelebile dell’assassinio del padre. Al rosso pascoliano, già in Myricae, e poi vedremo quali altri significati simbolici esso avrà nei Primi Poemetti, è costantemente connaturato un valore negativo (l’unica eccezione è il "roggio nel filare" detto del pampino che brilla ed è ricompensa per il contadino laborioso in Arano"). "Rossi" sono i volti dei fratelli, resi così dal freddo in Il Giorno dei Morti; "rossi" sono i calici di vino a cui il convitato della vita deve attingere in Convivio (qui la Vita è associata al sacrificio e ad una sorta di funzione sacra, la cui offerta è simboleggiata dal calice. Nelle sacre funzioni il vino ricorda il sangue versato da Cristo e i termini associati vino-sangue hanno in comune lo stesso elemento cromatico; "rosso" è il sangue paterno che è restato invendicato.
Nella lirica Il Dittamo la pianticella che dà il titolo assume la funzione simbolica del perdono contro ogni vendetta, mentre nel "daino selvaggio è riconoscibile Pascoli stesso, la cui vita sofferente è stata segnata dal sangue del padre (vv. 11 –12: " – di lui segue un rosso / rigo il viaggio -) e il perdono dovrebbe nel desiderio del poeta eliminare la causa del soffrire. Associati al rosso sono "vermiglio" e "roggio", il primo anche con connotazione positiva, come risulta in Sera d’ottobre, in cui l’antinomia vita/morte è presentata in due quadretti di vita quotidiana, l’uno positivo, l’atro negativo, esplicitati dai sintagmi "vermiglie bacche" vs "stridue trascina"; il secondo ha talvolta funzione negativa, come in Il Giorno dei Morti, v. 13, in cui "roggia" è la croce che risalta nel triste cimitero pascoliano, croce arrugginita dal tempo, che evidenzia così e sempre l’inesorabilità del passare del tempo e delle lacrime.
I colori, dunque, e tra essi il rosso, non ricoprono solo funzioni meramente e superficialmente qualificative, ma sono spie della vita profonda del poeta, veicolati da spinte inconsce assumendo così risonanze simboliche autentiche ed originali, libere cioè da scelte pregiudiziali di marca retorica. Come afferma H. Friedrich, le fantasie si impossessano del visibile strappando al banale i suoi oggetti. Il poeta diviene mago del colore e del suono, giocando come un fanciullino con parole, suoni e colori (in Il Contrasto ai vv. 5 – 6 si legge: "Un cielo io faccio con un po’ di rena / e un po’ di fiato. Ammira: io son l’artista").
Prima di passare ai Poemetti, in cui è contenuta la nostra Digitale Purpurea, sono necessarie due preliminari riflessioni. La prima riguarda lo stacco determinato dal simbolismo europeo rispetto alla fede circa le possibilità conoscitive della ragione e l’esistenza di una verità oggettiva universalmente riconosciuta. Il rifiuto delle istanze conoscitive tradizionali, che potevano catalogare e al più intridere di sentimento l’esistente, ma non potevano pervenire al nucleo profondo e misterioso della realtà, posto ben al di là dell’apparente e del predicabile, conduceva alla identificazione di io e mondo e all’abbandono alle suggestive voci celate del profondo, lungo vie conducenti a ciò che non esiste ancora e che esiste al di là della conoscibilità offerta dalla pura osservazione e dalla ragione.
L’ignoto, l’inconscio, la religiosità trascendente o immanente diventano i nuovi spazi del poeta simbolista, conoscibili intuitivamente, estaticamente, oniricamente, con i nuovi strumenti conoscitivi rappresentati dall’analogia, dalla sinestesia, dalla allusività. Il poeta diviene veggente e rivelatore del mistero, sacrificando, nell’ebbrezza del tentativo di far emergere l’inconnu, tutti i suoi strumenti di lavoro tradizionali. Solo a questo punto alla rivoluzione dei contenuti avviata nel primo Ottocento dal Romanticismo si affianca un radicale rinnovamento dei significanti, che sarà il vero e proprio atto di nascita della poesia contemporanea, perché per essa non esiste più distinzione tra cosa e parola e non è più chiamata ad esprimere il reale esterno o interiore, ma a fondarlo e farlo esistere, abolendo la distinzione tra messaggio e codice che si unificano. La poesia diviene il luogo del possibile e dell’inedito rispetto all’esistente.
Questo potrebbe essere in estrema sintesi il significato storico del simbolismo a cui è riconducibile di fatto G. Pascoli per la prassi versificatoria delle sue raccolte poetiche, per le elaborazioni teoriche rintracciabili nelle prose del Fanciullino, per la forte carica di rinnovamento, portata quasi al limite di rottura rispetto alla tradizione, della parola poetica.
La seconda riflessione riguarda la frequenza quasi ossessiva nelle varie raccolte del poeta di simboli costanti che scaturiscono dalle ossessioni e dalle angosce più celate e che si estrinsecano in figure ed immagini solo apparentemente tranquillizzanti e che risultano invece fortemente inquietanti.
Dall’analisi di G. Barberi Squarotti apprendiamo il valore simbolico del nido, della siepe, della culla, del cimitero, della nebbia, delle campane, elementi tutti veicolanti un forte desiderio di protezione dai due pericoli più temuti dall’uomo-Pascoli e dall’uomo per Pascoli, la storia con i suoi drammi e traumi, la morte come definitivo e ultimo dramma dell’esistenza. Sono tutti simboli riconducibili al principio generale di regressione o del rimosso. E infine i fiori, considerando anche che il simbolismo cromatico prima analizzato ad essi frequentissimamente si riconduce, sono in Pascoli simboli delle primarie pulsioni istintive di Eros e Thanatos, quindi si svelano come fiori di sesso o di morte: o adornano il luogo del riposo dei morti e geminando nei cimiteri rendono contiguo e speculare il rapporto vita – morte, o sono immagine – segno che si svela di una sessualità a dir poco tormentata, che si nega a rapporti affettuosi ed erotici con persone che siano esterne al nido originario ed ancestrale. Ogni esigenza amorosa è fortemente censurata per non tradire i vincoli della famiglia, cementati da chi resta e dal ricordo dei morti, e per non consegnarsi all’estranea a quei vincoli, la donna. L’istinto sessuale, bloccato, diviene morboso nella curiosità inappagata, pieno di paure e di distorte immaginazioni e si trasmette simbolicamente tramite il fiore in modo inconsapevole, ma con potente efficacia. A testimoniarlo sarebbe sufficiente una lettura attenta dell’ Epitalamio Il gelsomino notturno, in cui il simbolo al contempo vela e svela i turbamenti inconsci del poeta. L’ulteriore verifica è quella rintracciabile in Digitale Purpurea, in cui il fiore del sesso è anche il fiore della morte, portando così a coincidere le due pulsioni istintuali all’interno e mediante una stessa immagine simbolica.
Il poemetto Digitale Purpurea fu pubblicato per la prima volta su "Marzocco" il 20 marzo 1898 ed entrò poi in Poemetti del 1900. In un passaggio di Lungo la via Maria, sorella del poeta, ricorda come un racconto fatto al fratello di un piccolo episodio capitatole durante la vita scolastica in un convento abbia ispirato a Giovanni l’ideazione della lirica (il brano è inserito nei documenti, prossimamente online). Il testo, di 75 versi complessivi, si articola con equilibrio in tre parti di 25 versi ciascuna ed ha come protagoniste due figure femminili che ricordano il loro passato giovanile in un clima che alterna momenti di pace e di abbandono sereno ad altri di forte turbamento ed inquietudine. Le due donne appaiono subito caratterizzate da tratti in forte contrasto; l’una, Maria, è "esile e bionda, semplice di vesti / e di sguardi", l’altra, Rachele, è "esile e bruna" e i suoi occhi "ardono": simbolicamente quindi i ritratti rimandano a due tipologie caratteriali e ad esperienze di vita diametralmente opposte. Maria è figura pura ed innocente, Rachele è invece tormentata, inquieta, disposta a sperimentare il proibito.
In un presente imprecisato il loro ricordo va al convento, alle "bianche suore", ai "piccoli e dolci anni", all’ "orto chiuso" popolato di piante e animato da suoni di uccelli. A questo punto per la prima volta ecco comparire il "fiore di morte", la Digitale purpurea, un fiore malefico, capace di avvolgere l’anima di un "oblio dolce e crudele". La presenza perturbante del fiore è nella prima parte accennata e subito superata dal ritorno della dolcezza idilliaca del ricordo che si appresta a maggiori dettagli.
Le due giovani, che "guardano lontano" (v. 25), si apprestano a un flashback in cui il passato scorre come un film al presente, tanto è vero che il primo verbo della seconda parte è "vedono", che apre in anafora anche la seconda terzina. Il clima puro e innocente della loro vita conventuale è rievocato (visto e sentito) con numerosi elementi caratterizzanti, "l’azzurro intenso del cielo", la primavera, le preghiere, il profumo d’incenso e dei fiori, il colore bianco e nero delle vesti delle monache e delle educande, le dolci parole, i buoni libri, solo leggermente agitati da adolescenziali turbamenti che eccitano le giovani e le rendono "più rosse e liete" e nel pregare le inducono al pianto (oh! Quale sorrise oggi, alle / grate, / ospite caro?). Solo alla fine della seconda parte in cinque versi tutti suoi o quasi, a parte "agili e sane" riferito alle educande, il fiore è ritratto in tutta la sua potenza malefica, visiva ("una spiga di fiori, anzi di dita / spruzzolate di sangue, dita umane"), e olfattiva ("l’alito ignoto spande di sua vita"), con tratti mostruosamente mescidiati tra mondo umano e vegetale, con quel colore sanguigno e con quel profumo inebriante che non possono che attrarre e perdere. Nell’ultima parte, dopo aver rivissuto le "dolci memorie" degli anni lontani e prima dell’ultimo addio ("ultimo" è il saluto e l’aggettivo ha un rilievo fondamentale) Rachele confessa di aver infranto il divieto e di essersi accostata all’alba, dopo sogni brucianti e languidi fermenti, al fiore, in un’atmosfera quasi mortale, a metà e in connubio tra quella dell’Assiuolo e quella del Gelsomino notturno.
Ella ne ha visto da vicino il colore perturbante, ne ha goduto il profumo e l’esperienza è stata di una dolcezza infinita e mortale. Di qui Rachele ha iniziato a morire, ammalandosi di un morbo che si chiama trasgressione e quel suo gesto non può essere inteso altrimenti che la prima esperienza del proibito che si colloca al di là delle innocenze e che però diviene irreversibile. L’invito seducente espresso dal verbo "Vieni!" (fine v. 21 e iterato all’inizio del v. 22) sembra essere voce del fiore che chiama a sé, ma forse è più ancora e meglio interpretabile come richiamo suadente della morte, perché qui il fiore di Eros è anche il fiore di Thanatos.
Pascoli, la cui presenza afasica al dialogo ha chiari indizi nel passaggio dalla terza persona dei verbi alla seconda, chiude la lirica con un emblematico e impersonale "si muore", che rimanda ai significati universalmente attribuibili all’uomo.
All’interno del testo analizzato molte sono le suggestioni e le consonanze che accostano Digitale ad esperienze poetiche italiane ed europee di un passato recente o contemporanee. Esaminiamone alcune. L’ambiente e il clima conventuale, già presente in Pascoli nella mirica Le monache di Sogliano e poi in Suor Virginia (Primi poemetti, 1904) è un tema caro sia al tardo-simbolismo di Maeterlinck (Suor Beatrice) che in seguito alla poesia crepuscolare, ma è operativa come stimolo per Pascoli, in Carducci (l’asclepiadea barbara In una chiesa gotica, inclusa in Odi barbare, 1877) e in Heine (in Sposa del cielo), per non parlare di altre suggestioni primo-ottocentesche.
Sul fiore malefico ricchissimo è il campo delle sue presenze nella letteratura di area simbolista e decadente, a cominciare con Ch. Baudelaire. In Anactoria, contenuta in Poems and Ballads, del 1866, di Swimburne il rapporto dita – fiori è invertito: vv. 124 – 128 "E dita dolci come fiori, buone da schiacciare e mordere / come il favo delle più segrete celle di miele / con conchiglie rare a forma di mandorla / e sangue palpitante come una purpurea screziatura sulle punte". In G. D’Annunzio molti sono i fiori perversi, come in Canto Novo (1882 II, IX, vv. 23 –25): "fiori chiazzati, o Lalla, di sangue umano / con lunghi stami gialli", o in Donna Francesca (La Chimera, vv. 113 – 114) "la carne è santa. E’ l’immortale rosa / che palpita di suo sangue vermiglio", o in L’adorazione (La Chimera, vv. 9 – 11) "l’aroma de ‘l divin fiore, che intatto / ne ‘l tuo misterioso essere chiudi, / per una lenta ebrietà m’attira", o in Preludio (Intermezzo, vv. 37 – 39) "Giungea di sopra ai culmini un odore / sconosciuto, malefico e pur tanto / dolce che mi si disfacea il cuore".
L’esemplificazione è interminabile e riguarda, in ambito tardo-ottocentesco, autori naturalisti come E. Zola nelle Curée (1872) e nella Colpa dell’abate Mouret (1875), o decadenti come K. J. Huysmans in Controcorrente (1884). Qui possiamo fermarci, aggiungendo, però, che la Digitale Purpurea di Pascoli, a detta di G. Getto, è il fiore più corrotto tra quanti ne produsse il decadentismo. Sul tema della malattia e della morte e nello specifico quella di Rachele si rimanda ai saggi illuminanti di G . Getto in Carducci e Pascoli, Napoli ESI, 1965, pagg. 154 e segg. e alla rassegna delle diverse interpretazioni in A. Di Benedetto, Frammenti su Digitale Purpurea nei primi poemetti, nella miscellanea Letture pascoliane urbinati, Ancona 1998.
Resta infine il tentativo di dare una interpretazione alla lirica partendo da elementi conosciuti e di facile riscontro. Innanzi tutto conviene partire dalla prosa Lungo la via in cui Maria, la sorella Mariù di Pascoli, ricorda di aver ispirato a Giovannino il poemetto con un suo ricordo – racconto di un’esperienza ormai lontana nel tempo, concludendo: "Il dialogo tra le due ex compagne di convento Maria e Rachele (in cui è la sostanza del lavoro), è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma Rachele l’ha creata lui". Dal nulla o il poeta aveva nel profondo un’immagine e un dramma che chiedevano di farsi parola? Nel convento agostiniano di Sogliano Maria e Ida erano state educande dal 1874 al 1882 e questo fatto non può essere trascurato, perché Rachele è certamente riconducibile a Ida (le due sorelle, per inciso, hanno caratteristiche fisiche rintracciabili, se pure invertite, dal poeta per mascherarle, nel topos della bionda e della bruna, ma nella realtà Ida è trasgressiva e bionda, Maria è bruna e timorata) la sorella che si sposa nel 1894 e così si stacca dal nido familiare, provocando uno shock tremendo in Giovanni e Maria. Due lettere indirizzate ai fratelli superstiti del nido, tre mesi dopo il matrimonio, rappresentano un crudele commento al poemetto in quanto in esse Ida confessa che non è felice, soffre e rimpiange il suo paradiso in terra. Il 5 aprile 1898, poche settimana prima dell’uscita di Digitale, scrive ancora a Giovanni una lapidaria "epigrafe": "Io vivo morendo". La vicenda complessiva comincia ad essere più chiara anche nei suoi significati simbolici: Maria, che esprime in pieno il patrimonio morale che è proprio di Giovanni, vive ricordando lo shock delle nozze di Ida (in un’atmosfera che contamina la notte del chiù con i simboli presenti nell’epitalamio Il Gelsomino notturno); è lei la violacciocca gialla che ha fiori vistosi e profumati, come la digitale, ma è una crocifera, è cioè una anti-digitale; è lei "esile e bionda" come la madre del poeta ("una sorella!", vedi Canti di Castelvecchio, Mia madre, vv. 31 – 36: "Me a miravo accanto / esile sì, ma bella: / pallida sì, ma tanto / giovane! Una sorella! / Bionda così com’era / quando da noi partì"). Una delle due donne resta innocente e pura, è salva, Maria; Rachele-Ida infrange il codice sublimato dell’amore filiale e fraterno, sperimenta l’amore e muore di matrimonio (eccolo il "si muore" finale nel suo vero significato simbolico).
Ed è il poeta, che non interviene nel dialogo, a creare la fantasia e i simboli che erompono dal profondo del suo dolore; egli ha cercato di ricostruire la serenità a lungo inseguita e qui esprime un tremendo giudizio censorio nei confronti di Ida, dell’amore, della morte a cui l’amore avvicina.
Ma di Digitale è possibile dare anche una lettura allegorica, come consiglia Maurizio Pertugi, collegando il testo ai saggi danteschi Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1901), la cui elaborazione è però di tre anni posteriore al poemetto. Certo è che la Rachele pascoliana richiama il personaggio biblico (Genesi, capp. XXX – XXXV) e le vicende di Giacobbe, di Labano e di Lia; richiama altresì la Rachele dantesca e la gemellarità mistica di lei e di Beatrice, così come delle esperienze purificatrici di Dante e di Giacobbe. La morte di Rachele è intesa allegoricamente come estasi, excessus mentis, fuga della mente dal corpo, come una necessità per "contemplare Dio". Rachele siede in Paradiso accanto a Beatrice, la speranza e la sapienza, e Dante giunge a lei dopo essere salito per le sette cornici del purgatorio, essersi purificato ed essere quindi disposto alla "contemplazione". Anche Beatrice, come Rachele nel dare alla luce Beniamino, deve morire, già nella Vita Nuova, perché la "speranza dei beati" diventi "speranza della contemplazione di Dio". La morte mistica della donna amata è condizione essenziale della morte mistica dell’innamorato (C. Garboli).
In conclusione, esistono molti elementi per una interpretazione allegorica di Digitale, ma sembra più attinente ai tempi di elaborazione pascoliana pensare che sia stata Digitale a stimolare in Sotto il velame l’interpretazione allegorica di Rachele e non viceversa.
Anche se non potremo mai sondare la profondità e la persistenza delle immaginazioni di Pascoli, ci sembra ragionevole pensare ad un primum simbolico-esistenziale che ha messo in movimento un ripensamento allegorico-intellettualistico, quando la Rachele-Ida ha incontrato la Rachele biblica e dantesca.
Il fascino di Digitale è anche qui: nel suo collocarsi in limine tra simbolo e allegoria, tra spinte inconsce che divengono parola simbolica (che però vela e svela) e la pacificazione dell’intelletto che solo svela verità eterne e tranquillizzanti.