LA LETTERATURA ITALIANA NEGLI ANNI TRENTA
Nera e gigantesca, per chi si aggiri tra i testi europei del XXI secolo, la montagna di letteratura al negativo che lo sovrasta: una letteratura di processi, di stranieri, di nausea, di uomini senza qualità, di terre desolate e morti a credito (1); di converso, ritornando su scenari italiani, nel cuore della dura cultura di regime imposta dal fascismo e sullo sfondo di quella tradizione europea ostinatamente in via d’acquisizione, rosse fluorescenze di garofani, il baluginio di occasioni, il lampo di occhi d’acciaio che accecano (2), solari città del pensiero e dell’utopia (come recita nel titolo, "Solaria", appunto, la rivista che, nata a Firenze nel 1926, venne soppressa definitivamente nel ’36 ), inconsuete alleanze (così sembrerebbe suggerire il titolo di un romanzo di Vittorini, Conversazione in Sicilia/Nome e lagrime (3)) tra ragione e malìa, tra propensioni realistiche (la conversazione, il porsi e porre domande senza affrettare risposte) e fiabesche ( una Sicilia come "Persia e Venezuela"), tra poetica del nome (nomi) e poetica dell’impegno (lagrime); esempi, tutti, di una ricerca formale folta di implicazioni morali, culturali, antropologiche.
PANORAMA CULTURALE
Gli anni trenta assumono nella storia d’Italia, dal 1870 ad oggi, un carattere di svolta sul piano strutturale: in campo economico, come effetto del superamento della "grande depressione" (1829-32), vi fu il primo tentativo di programmazione capitalistica e di capitalismo di Stato (IRI), senza che, però, esistesse ancora un vero mercato di massa e senza che fossero state adottate le tecniche di produzione su vasta scala.
In campo culturale la svolta di quegli anni determinò un nuovo sviluppo della crisi delle ideologie umanistiche e del ruolo tradizionale degli intellettuali come mediatori tra le classi sociali in funzione della civiltà e del progresso. Approfondimenti teorici, dibattiti, confronti e scontri polemici si agitavano intorno al problema della condotta dello scrittore, nelle scelte di scrittura, oltre che nell’attività personale, di fronte alla realtà politica e sociale, se dovesse, cioè, riparare nella difesa ad oltranza dell’autonomia creativa (lirica ermetica), in una distanza dal mondo che vuole significare non evasione, ma professione di una fede in cui valore poetico e valore morale sono tutt’uno, oppure volgersi in direzione dell’impegno, di una letteratura intesa come cultura e perciò unita da un rapporto immediato con la vita politica e sociale (narrativa realistica). Il fascismo, con la politica culturale di Bottai, accettò e teorizzò tale divisione: da un lato, con la formula cultura-azione, volle coinvolgere organicamente i letterati-ideologi più attivi e impegnati, dall’altro, con la sigla cultura-laboratorio, tentò, attraverso il rispetto e il riconoscimento della loro autonomia, di avvicinare i letterati-letterati (4). Ma la guerra di Spagna non solo detterà il fallimento da parte del regime di servirsi degli intellettuali come tramiti diretti e indiretti del consenso, in nome della "concordia" e negli interessi del paese, ma contribuirà anche a riproporre fortemente, sebbene in forme meno esplicite e aperte, il problema dell’accettazione o meno, da parte degli intellettuali, di una subordinazione al potere, complessivamente politica, etica e artistica.
A un ulteriore bivio venne posto il lavoro letterario, rispondere alla fruizione di un pubblico più vasto e vario oppure rimanere volontariamente ai margini, di fronte alla crescente diffusione degli attuali strumenti di comunicazione di massa (stampa, cinema radio) e allo sviluppo dell’industria culturale. In letteratura penetrarono, infatti, in modo più capillare che in passato, le forme dei generi di massa: nel 1929 la collana mondadoriana inaugurò la fortuna del genere poliziesco in Italia, ribattezzandolo prudentemente con un innocuo termine coloristico, il giallo (5), e nel 1931, con Signorsì, la comasca Liana Cambiasi Negretti, in arte Liala, si impose come regina del rosa in stile alto. In sostanza i letterati, in quanto artisti, vivevano il contrasto con un regime identificabile con quella società di massa, avvertita già da decenni come distruttiva nei confronti dell’arte in quanto tale, ma, come intellettuali, sia "puri" che "impegnati", fruivano dell’industria e dell’organizzazione culturali del fascismo.
Le riviste, soprattutto "900" (1926-29),"Solaria" (1929-32) e "Campo di Marte" (1938-39), mostrano un panorama pressoché completo del mondo intellettuale di allora e delle varie soluzioni ideologiche ed espressive, tanto più "eclettiche" ed aperte a ciò che nel mondo accadeva di intellettualmente rilevante, quanto più quella politica culturale si voleva organica e nazionale. L’esperimento mediatore di Bontempelli e della sua rivista, "900", si sforzò in nome del realismo magico ("volenterosa creazione dei miti della nuova epoca") (6), esplicitamente contrapposto al realismo rondesco (la prosa breve, cosiddetta d’arte), di armonizzare l’esigenza di realismo con l’immaginazione, il rigore formale con la necessità storica di aprirsi ad un pubblico di massa. La prosa d’arte di ascendenza rondista, improntata alla ricerca della "bella pagina" di stampo lirico, trovò, invece, nella rivista "Solaria" un canale di ulteriore diffusione, all’interno, però, di un quadro culturale e letterario ormai diffusamente percorso da inquietudini novecentesche europee. Attraverso un’ "elevata potenza di oggettivazione"(7) la rivista fiorentina volle dar vita ad una letteratura intesa come fantasia e, insieme, chiaroveggenza e controllo razionale, che, nell’equilibrio e nella completezza d’assestamento classico, compaginasse "ciò che per l’universo si squaderna" . Tutti gli sforzi puntarono, da un lato, a fare dell’europeismo una tradizione anche italiana, rendendola familiare e traducendola entro la civiltà del nostro paese, dall’altro, a definire le linee di una moderna tradizione italiana, di un moderno classicismo narrativo da ritrovarsi in Pea, Palazzeschi e, soprattutto, Tozzi e Svevo. Il giovane Vittoriani entusiasticamente così scriveva nel ’29: "Ci siamo sorpresi (…) nella più stretta parentela con Proust, con Gide, con il pensiero europeo. È inutile tacerlo o dissimularlo. Proust è il nostro maestro più genuino, più spontaneo, più caro (…). E Svevo, venuto all’ultimo momento (…) ci ha giovato meglio che vent’anni di pessima letteratura"(8). Fu un equilibrio tuttavia difficile, la cui soluzione non poteva essere che sperimentale, una direzione in cui Gadda toccherà i risultati più maturi. Fu, però, uno sperimentalismo che non volle avere niente di avanguardistico (lo stesso Gadda pubblicò sul periodico fiorentino un’apologia di Manzoni), con soluzioni narrative diverse a seconda che prevalessero le angolazioni prospettiche femministe (Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, moglie del critico d’arte Roberto Longhi), l’analismo psicologico di infanzia e adolescenza (Romano Bilenchi, Pier Antonio Quarantotti Gambini), il trasferimento fantastico o surreale (Alessandro Bonsanti, Gianna Manzini, Tommaso Landolfi), l’impegno stilistico (il primo Gadda), il realismo lirico (Elio Vittorini e Cesare Pavese). La partecipazione, seppure non ufficiale, del regime alla guerra civile spagnola, diede un sensibile scossone al già precario equilibrio. Il dissenso, comprensivo anche della fronda dei "fascisti di sinistra", che aveva favorito il prevalere delle poetiche realiste di pari passo con l’affermarsi e lo stabilizzarsi del potere (lo segnalò con acutezza anche M. Bontempelli (9)), ritornò ad esprimersi su un piano puramente etico e letterario. Nell’area del rigore etico ed espressivo dell’ermetismo, confluirono temporaneamente anche quegli intellettuali che avevano efficacemente contribuito all’elaborazione dell’impegno in chiave populista, quali Malaparte, poi fondatore di "Prospettive", Pratolini, Bilenchi, Vittorini e numerosi altri. La testimonianza più efficace di questo tentativo di incontro tra "impegnati" e "letterati puri", incontro che si nutriva sul piano artistico ed espressivo di profonde affinità, fu offerto da "Campo di Marte", redatta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini. L’incontro, dal cui confuso incrocio di tendenze trovarono la loro prima formazione i futuri protagonisti della stagione letteraria del dopoguerra, da Cassola a Bassani a Fortini, muoveva sul terreno di una nuova definizione del rapporto arte-società, letteratura-vita, nel tentativo di elaborare un comune concetto di lavoro culturale che, pur salvaguardando l’autonomia dell’arte, valore supremo dell’umanità ed espressione di una condizione eterna e universale dell’uomo, non sacrificasse necessariamente il rapporto tra l’ intellettuale e la Storia, l’intellettuale e un pubblico assai più vasto di quello ristretto alla sola società letteraria. La consapevolezza del nuovo ruolo imposto ai letterati dai cambiamenti storici portò in breve gli scrittori a superare l’esperienza dell’incontro con una cultura, quella ermetica, che rappresentava l’estrema forma di una resistenza del tutto soggettiva ad un corso storico nel quale essi volevano operare. La chiusura nella cittadella delle Lettere non era più possibile di fronte alla catastrofe della guerra e all’irruzione delle masse nella storia verificatesi con la lotta della resistenza. L’ultima lettera di un giovane intellettuale, grande traduttore e saggista, Giaime Pintor, caduto poco prima di unirsi alle forze partigiane, ben esprime l’urgenza dell’impegno prodotta dallo shock della guerra e della caduta del fascimo: "Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. (….) Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile." (10) Il realismo degli anni trenta evolve verso il neorealismo.
SUNT LACRIMAE RERUM
Con questa espressione di Virgilio, viene riassunta di solito la poetica naturalistica. Vittorini, invece, dice Nome e Lacrime e fonde insieme due linee, quella di un’idea di letteratura di derivazione solariana, e quella del coinvolgimento nella realtà storica, poesia e prosa, simbolismo e realismo. E non poteva essere diversamente in un momento letterario e culturale europeo in cui tendenze al "nuovo realismo" ("Neue Sachlichkeit", "nuova oggettività", la chiamarono in Germania nel 1926) e Surrealismo sono fittamente intrecciate. Tradizioni e culture si mescolano, la determinazione dell’elemento bassorealistico o "freddo" trova un rarissimo accordo con l’indeterminazione del mondo simbolico. Mentre Vittorini e Pavese scoprono l’America, il fascino di una narrativa che, anche quando indaga l’uomo nella sua dimensione storica, sa arrivare alle radici della sua essenza, al di qua della civiltà stessa, l’America , a sua volta, scopre la vitalità dei classici latini e Fitzgerald nel Grande Gatsby, con un esplicito rimando alla Cena Trimalcionis, individua nel Satyricon di Petronio il referente più adeguato ad esprimere la ricchezza e gli eccessi di una "aristocrazia del denaro" che va rapidamente soppiantando quella tradizionale. Eliot, Auerbach (11), Pound e Lewis rileggono Dante, incantati e irretiti dalla potenza del suo realismo, dalla moderna capacità di tradurre in realtà, e in realtà di poesia, una verità universale e, a un tempo, di singoli individui, di ogni tempo. Anche l’Eneide, un poema che a dispetto di tanta ideologia imperiale è in definitiva un poema di vinti (12), viene riabilitato. Eliot, ancora lui, nel 1944, nel Presidential Address alla "Virgilian Society", sancisce pubblicamente l’ "adeguatezza" dell’opera virgiliana e inaugura la formula critica del classico come opera matura, capace, cioè, di sintetizzare per intero il senso di un epoca in particolare e dell’uomo in generale. "Inadeguata" (per usare l’espressione coniata da Matthew Arnold) a descrivere la Roma Augustea, l’Eneide è in grado di descrivere noi, un umanità dolente che, portando sulle spalle il proprio passato e tenendo per mano una fragile speranza, attraversa le macerie di un mondo sconvolto dalla seconda guerra mondiale (G.Caproni, Passaggio di Enea). Anche per Leopardi scocca la sua ora, in forme più diluite e per questo più feconde. Rifluisce, fuori d’Italia, nei Notturni del colombiano José Asunción Silva e, più in generale, - accanto a Poe, Baudelaire, Heine, Gautier- nei "Modernisti"( poeti di una Plèiade ispano- americana della fine dell’ottocento e del primo trentennio del novecento il cui Ronsard fu il nicaraguense Rubén Darío); in Italia, rivive in Montale, nell’attesa vitale che dura nonostante tutto e quindi scongiura. Montale e Leopardi saranno accolti nelle generazioni future come maestri di un’assoluta assenza di illusioni che, rifiutando atteggiamenti disperati o consolatori, inutili alla progettazione,continua ad essere paradigma di valore. In questo contesto attraversato da "figure" "correlativi oggettivi"e andirivieni esistenziali e sociali, si pone la narrativa italiana. Oltre agli sperimentali di area solariana, annoveriamo, in un elenco approssimativo, scrittori come Arturo Loria, Giovanni Comisso, Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Carlo Bernari, Francesco Iovine, Vasco Pratolini, Domenico Rea, Carlo Levi, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Ignazio Silone. Alle spalle hanno Pirandello e Svevo. Ma mentre quelli smontavano l’ideologia di un mondo plausibile e obiettivamente rappresentabile, decomponevano la realtà (Svevo la rendeva infinitamente fluida e Pirandello ampliava illimitatamente il regno delle apparenze fino ad annientarla), loro partono dallo spessore dei fatti e non dubitano di essi . Credono che il mondo esista, che esista nella sua fruibilità e ricchezza sensibile, credono nella sua conoscibilità, al di là dei codici linguistici e concettuali imposti dalla tradizione ai sensi e ai processi logici; credono nella sua umanizzazione. Dopo tante scomposizioni, pur mantenendo viva la carica critica dell’avanguardia, sentono il bisogno di ricostruire il sensus communis, magari dando voce al mondo popolare (cittadino e rurale) che nell’Italia ufficiale non si trovava rappresentato in nessun luogo e che era il loro mondo, o che scoprivano come il loro mondo. Con questa tensione recuperano Verga e la forma del Romanzo tradizionale, ma con inevitabili scarti. La coscienza di non potersi più affidare a visioni ideologiche totalizzanti e a strutture narrative che riproducano dati oggettivi e comprensibili si oppone al semplice recupero del romanzo realista-naturalista ottocentesco; occorreva poi trovare una lingua, e un modo di usarla, che superasse l’aporia tra la soggettività dell’autore e la materia di cui voleva farsi portavoce. Per risolvere il problema, mettono in primo piano il mondo degli altri; forzano il reale a esprimere un significato ora, presentandoci bambini, adolescenti, donne che, per ingenuità, ne colgono incongruenze, ora, lasciando la scena al popolo, la parte più aurorale dell’umanità contemporanea, ora, registrando sotto la passività di minute annotazioni realistiche i sordidi meccanismi del mondo borghese. In ogni caso il punto di vista vuol essere quanto più lontano possibile da un punto di vista intellettualistico; un "fossato di offesa", dirà Vittorini nel Garofano rosso, divide gli scrittori da operai, braccianti, contadini, dal mondo. A ben vedere,infatti, quella poetica, che nei propositi vuole afferrare l’irraggiungibilità delle cose, nei fatti, riconferma la precaria condizione dell’intellettuale, lo stato di insufficienza propria dello scrittore moderno. Gli scrittori sentono la complessità e la tragedia della Storia, ma possono muoversi solo ai margini di essa, parteciparvi o con l’esaltazione lirica di un violento trasporto affettivo-vitalistico, o con la disgustata e annoiata passività di chi, nella sua impossibile adesione al mondo, non può che limitarsi a registrare oggettivamente. Così afferma Calvino in una conferenza letta a Firenze nel febbraio del 1955 (13): "Certo non faticheremo a scoprire la sua presenza [dell’uomo ermetico] al centro dell’esperienza dei maestri della nuova narrativa, proprio nelle opere attraverso le quali s’attuò una sortita dal clima ermetico verso le nuove poetiche realistiche." (14) Il tema vero della poesia, come della narrativa, è lo scacco dell’intellettuale sul terreno politico e la rivalsa sul piano della trasfigurazione. In questa prospettiva alcuni dati acquistano un sinistro rilievo. La doppia fruizione del mito dell’infanzia e dell’adolescenza, in direzione neorealistica e surreale fantastica, dell’America, simbolo di attaccamento istintivo, aideologico ai dati dell’esistenza, ma anche "nuovo Oriente favoloso", e tutta la realtà "inferiore" (il popolo, la donna) sono "figure": non rappresentano solo se stessi, ma sono anche il simbolo di un’estraneazione storica che riguarda tutto il ceto degli intellettuali letterati, in Italia e in Europa, la riprova che la figura tradizionale dell’intellettuale è sconfitta. Significativo, poi, che, quando gli intellettuali nel dopoguerra saranno sollecitati ad accedere alla "parola politica", rinunceranno o alla letteratura (Bilenchi), o alla militanza politica (Vittorini). Le speranze e l’ illusione di dare alla letteratura una funzione pratica e costruttiva franeranno nella delusione degli anni ’50. Il cronico stato di insufficienza dello scrittore dislocherà di nuovo i confini del reale e diventerà principio di un racconto discontinuo, percorso da fantasmi e carico di enigmi.
1
T.S.Eliot,The Waste Land, (1922); F. Kafka, Il processo, (1925); R. Musil, L’uomo senza qualità, (1931); E.Vittorini, Il garofano rosso, (1933); L.F. Celine, Morte a credito, (1936); J.P. Sartre, La nausea, (1939); E. Montale, Le occasioni, (1939).2
E. Montale, "Le Nuove Stanze", in Le occasioni.3
Il romanzo uscì a puntate sulla rivista "Letteratura" nel ’38-’39 e poi in volume nel ’41 col titolo Nome e Lagrime, per non attirare la censura; il titolo originale venne ripristinato nella seconda edizione Bompiani dello stesso anno.4
All’elasticità del regime nei confronti dell’alta cultura corrispose, da parte di questa, un atteggiamento altrettanto elastico. Significative in tal senso due vicende: quella dell’Enciclopedia Italiana, diretta da Gentile, a cui furono chiamati a collaborare anche intellettuali antifascisti, e accettarono di farlo ben 80 fra i firmatari del manifesto antifascista, e della rivista "Primato", voluta dal regime, a cui collaborarono saggisti come Praz, Contini, Macchia, scrittori come Pratolini, Gatto, Pavese, e quasi tutti i protagonisti della cultura di sinistra del dopoguerra. L’appello agli intellettuali perché si incontrino al di là delle proprie ideologie manterrà a lungo la sua capacità di persuasione e ritornerà, subito dopo la guerra, nel programma del "Politecnico" di Vittorini.5
"Tra le molte ragioni adducibili per spiegare l’inesistenza di una tradizione di narrativa poliziesca nel nostro paese, una soprattutto va tenuta presente: la sfiducia dell’opinione pubblica nell’efficienza dello Stato borghese di diritto, come garante dell’amministrazione di una giustizia energica, sicura, eguale per tutti. ? infatti significativo che il giallo cominci a fiorire da noi all’ombra della dittatura, cioè quando le istituzioni della legalità si corroborano fortemente, ma in senso dittatoriale e, appunto, poliziesco." V. Spinazzola, "Dal romanzo popolare alla narrativa di intrattenimento", in manuale di Letteratura italiana, F. Brioschi e C. Di Girolamo (a cura di), Torino 1996, vol.4, p.669 .6
M. Bontempelli, "Realismo magico e mitologia politica", luglio 1928.7
"Il vero romanzo non può essere creato se l’autore non sia fornito da un’elevata potenza di oggettivazione", A. Consiglio, Italo Svevo, in "Solaria", 1932, 12.8
E. Vittorini, Scarico di coscienza, in "L’Italia Letteraria", 13 ottobre 1929.9
"Oggi il pericolo non sta dalla parte della torre eburnea, sta dall’altra parte, dalla parte dei lavapiatti", da una lettera aperta a V. Bontempelli in occasione della pubblicazione di un Almanacco antiletterario, ora in M. Bontempelli, L’avventura novecentista, Firenze,1974,pp.195-9710
G. Pintor, Doppio diario 1936-43, a cura di M. Serri, Torino, 1978, pp.199-20211
Nel 1929, nello stesso anno in cui vedeva la luce il celebre saggio di Eliot su Dante, Auerbach in Germania pubblicava il suo Dante, poeta del mondo terreno12
"Che dire.. di un poema in gloria di Enea e di Roma i cui protagonisti sono in definitiva degli sventurati, i Troiani? Che celebra le vittorie dei "nostri", i Troiani/Romani, ma altrettanto spesso si china piangere sulle ferite e sui cadaveri degli Italici vinti?" M. Bettini, "Introduzione alla poesia classica latina", La Biblioteca di Repubblica, Torino, 2004, p. 913
I. Calvino, "Il Midollo del leone", in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 1995, pp. 5 e sgg.14
I. Calvino . op. cit. p. 7