LUIGI PIRANDELLO

L’ESCLUSA

 

Ha ventisei anni Pirandello, quando nel 1893 redige la prima versione del romanzo Marta Ajala, poi ribattezzato L’Esclusa. È la sua prima apparizione da romanziere su una ribalta letteraria allora dominata da Verga, la prova più impegnativa di verifica della sua vocazione narrativa e insieme del naturalismo; e nello sforzo di sviluppare fino in fondo le premesse dell’una e dell’altra, dell’una e dell’altra confermerà la validità, dell’una e dell’altra scoprirà l’insufficienza.

Ha lasciato alle spalle la scoperta del Nord, l’amore per Jenny Schultz-Lander,la spensierata vita goliardica dell’università di Bonn, dove si è laureato da appena due anni. Da un anno si è trasferito in Italia e vive in pianta stabile a Roma, per dedicarsi con un assegno paterno interamente alla letteratura. Fanno da quinte alla sua conversione alla prosa alcuni sparuti segni premonitori del suo destino futuro (un dramma, composto a undici anni, di cui conosciamo solo il titolo, Barbaro; un "bozzetto siciliano", scritto nel 1883, ancora sui banchi di ginnasio, La capannetta; commedie di cui ci sono rimasti i titoli, Gli uccelli dell’alto, La gente allegra, Le popolane), un folto volume di versi, Mal giocondo, (raccolta di liriche composte a partire dai sedici anni, in un ventaglio di suggestioni amplissime, che va dai classici, ai poeti più in voga negli ultimi decenni del secolo: Prati, Rapisardi, Pascarella, D’Annunzio, Graf e, soprattutto, Carducci) e un saggio, Arte e coscienza d’oggi, titolo esplicitamente citato nel romanzo come argomento della conferenza palermitana di Gregorio Alvignani, sulla cui bocca molti di quei pensieri ritorneranno testualmente puntuali. Ha appena iniziato la sua carriera da narratore e già Pirandello, nel mentre si dispone alla mimesi e si aggrappa al filo di una continuità letteraria, lungi dall’acquietarsi in una zelante diligenza, si accinge beffardamente a "scomporla": da un lato, conduce velocemente alla sua logica conclusione quel processo alle forme della poesia carducciana iniziato in Mal giocondo – la prosa, non la poesia, è il mezzo più idoneo per esprimere l’immagine di un mondo in cui è venuto meno ogni motivo di esaltazione e quindi di canto; dall’altro, mette in moto quel singolare sistema di reazione a catena che dà alla sua opera l’inconfondibile carattere di work in progress, bricolage – personaggi, temi, concetti, parole rimbalzano come palle elastiche da un’opera all’altra, procedono di lavoro in lavoro, in cerca di un capolavoro da cui sono scalzati da una fluidità creativa senza scampo che, se vieta loro la stasi del senso compiuto, ne è paradossale garanzia di continuità e durata.

Ha settant’anni il Romanzo italiano, dacché Alessandro Manzoni registrò all’anagrafe dei generi letterari la nascita, 17 settembre 1823, del Fermo e Lucia. Il grande romanzo ottocentesco, di linea realistica e naturalistica, radicalmente antiletterario, ha compiuto per intero la sua parabola. Venuti meno i grandi modelli storiografici e scientifici, propri dell’età romantica e dell’età positivistica, decadono insieme il realismo di un Manzoni o il naturalismo di un Verga, che non avevano per modello la letteratura, ma la storiografia e la scienza - e che abbiano poi prodotto arte e grande arte è la loro nascosta ironia e anche la loro complessità - . Sullo scadere del secolo si ha al contrario una rivendicazione dell’arte e della letteratura contro il vero. Abbiamo il romanzo simbolista, il romanzo di D’Annunzio, che nasce dall’uso di altri libri. Opere di altri tempi e di tutte le tradizioni - greca, latina, italiana, francese, russa - ridotte alla loro quintessenza poetica, al loro comune denominatore estetico, vengono sospinte nel destino della nuova arte: l’arte del consumo dell’arte. Ma nell’età del pieno dispiegamento del mercato, in un mondo defamiliarizzato, in cui la ricerca di senso o di totalità, anche quella di tipo estetico-emozionale, si va inabissando e la verità è vera soltanto se nega se stessa, reagire contro l’estetismo, senza cadere in vecchie formule, diventa un obbligo. Stretto nell’aut aut naturalismo/estetismo, il romanzo novecentesco segna un ritorno al realismo, ma con la consapevolezza di un’idea di realtà che non è più quella ottocentesca e con un’altra tradizione del romanzo alle spalle, la tradizione più propriamente sterniana, o, come l’avrebbe chiamata Pirandello, umoristica.

Quattro anni dopo l’uscita del Mastro don Gesualdo di Verga e del Piacere di D’Annunzio (entrambi del 1889), un anno dopo Una Vita di Svevo (1892), un anno prima dei Viceré di Federico de Roberto (1894), Pirandello scrive Marta Ajala. Oltre trenta anni durò la rielaborazione del romanzo, per l’esattezza trentaquattro, tra la stesura del 1893 e l’edizione definitiva del 1927. Né bisogna dimenticare che il manoscritto rimase inedito per otto anni. La pubblicazione , infatti, già col titolo definitivo L’Esclusa, avvenne a puntate, tra il giugno e l’agosto del 1901, sul quotidiano romano "la Tribuna". L’edizione in volume, molto ritoccata e con rilevanti scarti rispetto alla precedente, è successiva poi di ulteriori sette anni: uscì presso Treves nel 1908, contemporaneamente all’Umorismo, e l’autore collega esplicitamente l’opera al saggio nella lettera a Capuana che vi funge da prefazione. L’Ultima edizione esce dopo quasi un ventennio presso l’editore Bemporad, comprensiva anche dell’indicazione del luogo dell’originaria composizione, Monte Cavo, in provincia di Roma, alle falde dei monti Prenestini, scenario estivo di una villeggiatura di oltre trenta anni prima.

Per l’intanto restiamo al 1893, anno in cui si segnalano, oltre il già citato saggio, Arte e coscienza d’oggi, due episodi importanti. Il primo: in un articolo del settembre dello stesso anno, la "Nazione letteraria" di Firenze, Pirandello dichiara di volersi riservare,"nella straordinaria confusione di fine secolo", il compito di "un poeta umorista". Il secondo: proprio a Monte Cavo, in quella estate di villeggiatura, il narratore esordiente detta all’amico Pio Spezi il cosiddetto Frammento d’autobiografia, stampato senza l’assenso dell’autore molti anni dopo, nel ’33, sulla "Nuova Antologia". Un romanzo, un saggio, un articolo e un lacerto autobiografico risultano così congiunti attorno alla rimeditazione del pensiero scientifico e positivista - il che tradotto in letteratura sollecitava qualche riserva sul tipo di romanzo allora in voga -, in un momento in cui, e qui soccorre la testimonianza autobiografica, Pirandello avverte di appartenere per nascita al mondo del disordine: Io dunque sono figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché sono nato in una nostra campagna, che trovasi appresso ad un intricato bosco, denominata, in forma dialettale, "Càvusu" dagli abitanti di Girgenti (…) corruzione…del genuino e antico vocabolo greco "Xàos".

L’Esclusa avrebbe dovuto intitolarsi un romanzo dello scrittore palermitano Federico Giorgi, il quale aveva illustrato il progetto a Verga che, insieme a De Roberto, aveva disapprovato e sconsigliato il titolo. È molto probabile che Pirandello conoscesse personalmente l’autore; in ogni caso, tramite Capuana, avrebbe potuto facilmente venire a conoscenza del fatto. Il recupero di un titolo bocciato dai due maestri catanesi avrebbe dunque il valore ambivalente di un atto di omaggio e al tempo stesso di divertita polemica, tanto più che il motivo ispiratore della trama sembrerebbe, a detta di molti, riconducibile a un episodio di cronaca legato proprio a Verga. Il ripudio di Marta, sorpresa dal marito a leggere la lettera di un corteggiatore, ripeterebbe la scena della cacciata di Giselda Fojanesi, moglie del poeta classicista catanese Rapisardi, scoperta con una lettera compromettente dello scrittore. Con la differenza che la Fojanesi, per quanto è dato sapere, maestra come Marta nel romanzo, fu veramente amante di Verga e come adultera allontanata dal marito. Anche la figura del deputato Gregorio Alvignani, il presunto amante di Marta, sembra a sua volta adombrare un personaggio reale, l’agrigentino Nicolò Gallo, uomo di lettere e saggista, oltre che parlamentare.

Emblematica la scena che apre il romanzo nell’edizione del 1908. La precisione impersonale della messinscena, l’accurata collocazione di oggetti e personaggi, colti nell’attimo di immobilità, prima che l’azione scatti come un dispositivo a orologeria, mostrano con fin troppo spicco l’impianto naturalistico: Antonio Pentàgora, "cinque corna", secondo il cognome grecizzante, siede a tavola tranquillo per cenare, come se non fosse accaduto nulla. Illuminato dalla lampada che pendeva da soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero. Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo. A sinistra Nicolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia. L’impianto impersonale è già sfigurato, prima che dal contenuto e dall’impostazione della vicenda, da quei ritratti deformati. Tuttavia nelle pagine pubblicate la prima volta nella "Tribuna" e, in forma molto ampliata, nella edizione del 1908, all’inizio del romanzo Sidora era fatta oggetto di un’attenzione degna di nota per il lettore-spettatore. La scena ce la presenta in cucina, curva sotto la cappa dell’enorme camino, bisbigliante incomprensibili formule in direzione del fuoco Che vedeva? Perché sorrideva così? Certi suoi atti, certe sue espressioni erano veramente da povera mentecatta; ma a quando a quando faceva anche stupire o divinando cose lontane o dimostrando innegabilmente di vedere oltre la vista naturale. Sicchè la gentuccia del vicinato credeva che ella fosse in commercio misterioso con le "Donne", e qualcuna giurava di aver sentito nelle notti di inverno più burrascose gridare tra il vento, su dai tetti, il nome di lei:-Sidora! Sidora! Le "Donne", certo, che venivano a chiamarla, se la portavano via con loro, in ispirito. Non aveva ella in casa un altarino su cui adorava tre spighe secche circondate da sacchettini scarlatti pieni di sale? – L’animuccia mi ha gli occhi tondi tondi,rossi, vivi vivi; la coda lunga, il becco nero. Nido di rondinella, appeso a un campanile, presso le campane. Sta di casa là, l’animuccia mia. "Din don dan, din don dan". Sbuca un vecchio topo, sbucano i topicini; si mettono a giocare con un sassolino, sulla balaustrata del campanile. Le campane ronzano, le campane sbadigliano al cielo; han la lingua ciondoloni; hanno fame di vento, le campane. Quant’arsura, nell’estate! Pioggia, pioggia, lava le campane: spunta l’erbuccia dalla frescura…"Dan dan, dan dan", le monacelle della badia. Corvo, diavolo che vi porta via! Queste erano le sue filastrocche, quand’era di buon umore. Per lo più, però, era ingrugnata; e quella sera, quella sera più del solito. Chi siano le Donne ce lo spiega Giulian Dorpelli, anagramma di Luigi Pirandello, che sulla "Rassegna settimanale Universale", diretta da Federico Garlando, scrive della credenza comunissima in tutta la Sicilia nelle cosiddette Donne di casa –spiriti di persone viventi che vagano a loro piacere per il mondo, il mercoledì e il sabato, di notte o lungo il meriggio – o nei lupi mannari o nel moretto della fortuna. E non si fermava qui. Diceva che nella sua Girgenti a guardare le stelle si correva il pericolo d’aver tutta la faccia butterata; che il sognar d’avere i denti strappati significava morte a breve di un parente; che era malaugurio lasciare il letto rifatto a metà, senza buttar subito sopra il primo lenzuolo; o che il sentir buccinare l’orecchio sinistro significava che qualcuno diceva bene di noi, e male se quella sensazione fosse nell’orecchio destro, Oricchia manca, di beni si nni stanca, oricchia dritta, ommia maliditta. Credenze e riti di una magia popolare a cui Pirandello sotto mentite spoglie esortava a rimanere fedeli, opponendoli come segno di autenticità, di realtà paesana della propria terra, ai casi patologici e anomali d’artisti decadenti, alla falsa vita, appassionata e mondana a cui Verga, Capuana, De Roberto, anche loro, avevano ceduto,. L’espunzione della scena nel ’27 andrebbe ricondotta secondo alcuni alla volontà di sopprimere il risvolto autobiografico, legato all’immagine di infanzia della serva contadina Maria Stella, nascosto dietro Isidora, secondo altri a necessità di coerenza testuale, perché le credenze magiche non contraddicessero l’estrazione piccolo-borghese della famiglia di Rocco Pentàgora e non turbassero la vicenda di un romanzo che voleva essere la storia di un conflitto borghese. Forse la consapevolezza in atto della disfatta della scienza come regno naturalistico della certezza imponeva che quella cultura, forte di una conoscenza che rischiara e risolve in ordine e unità l’infinita varietà del fenomenico, venisse messa alla prova sul terreno stesso dei fatti. Da quella cultura, la narrativa naturalistica di Pirandello doveva prendere distanze non inconsce: Qui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta e inesorabile; e fa sì che un’innocente, scacciata dalla società – per esservi riammessa – debba prima passare sotto le forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata. Nulla di combinato, tuttavia, o di congegnato avanti o di adattato a questo fine segreto. E qui han luogo infatti i tanti ostacoli improvvisi, gravi o lievi, che nella realtà contrariano e limitano o deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senz’ordine almeno apparente, irta di contraddizioni, è lontanissima, spesso, dalle opere d’arte, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano, e che perciò mostrano una vita troppo concentrata da un canto, troppo semplificata dall’altro. (…) E quante occasioni imprevedute, imprevedibili, occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengon poi sospese o su l’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo..? Voglio con questo scusare le umili e minute rappresentazioni, che occorrono frequenti nel mio romanzo. La lettera a Capuana, posta in prefazione al romanzo nell’edizione del 1908, anticipa un paragrafo, il secondo, dello scritto che accompagnerà l’edizione definitiva del Fu Mattia Pascal, L’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Qui Pirandello si abbandona a un’analoga polemica contro "la logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori", che pensa non gli appartenga più in quanto si sente vicino alla vita, alle sue assurdità. E per difendersi dai sostenitori del verosimile, urtati da un personaggio, Mattia, burattinisticamente al comando dell’autore, pubblica in appendice la notizia di cronaca di un caso simile a quello che lui aveva raccontato. "Era da vedere in quella precisazione una prova del suo esasperato ossequio ai fatti o una sfida alla realtà che imita l’arte?" si chiede G. Macchia ("Il Romanzo come farsa trascendentale", in Pirandello o la stanza della tortura). Entrambe. Se il modello storiografico prima, il modello scientifico poi erano intervenuti a ripopolare di cose le parole della letteratura, poiché entrambi erano caduti nella trappola della fascinazione che le cose, proprio come in un’opera d’arte le parole, visibilmente si tengono a vicenda e a vicenda cooperano, toccava all’Arte il compito di liberare parole e cose dalla malia. Arte e Scienza. L’occhio lucido, impietoso, con cui l’autore guarda agli stracci dell’umanità, subentra alla preveggenza di Isidora. L’artista reclama per sé il potere della magia. Metodo sperimentale e spiritualismo s’alleavano per carpire alla natura altre leggi, altre forze, altra vita.

Di quel romanzo, Il fu Mattia Pascal, la singolare storia di un uomo che raddoppia se stesso, L’Esclusa anticipa molti temi, destinati a diventare seriali nell’opera di Pirandello. Anzitutto la ricorrenza di situazioni di ripetizione, per l’appunto. La trama segue uno schema strutturale essenziale, tutto giocato sul ritorno rovesciato delle situazioni di partenza. Un gioco di specchi, a partire dalla divisione per genere delle famiglie dei coniugi, Marta e Rocco: da un lato, i Pentàgora, tutti maschi dopo l’allontanamento, per adulterio, della moglie di Antonio – Isidora, che non ha commercio coi vivi, fa parte a sé -, dall’altro le Ajala, tutte donne dopo la morte del padre; quando Marta innocente viene scacciata la prima volta, è incinta e perderà il bambino, quando adultera viene invitata a ritornare aspetta un figlio dall’amante, Gregorio Alvignani, che non sa se nascerà. All’isotopia dei particolari si lega l’altra fondamentale intelaiatura rifrattiva del romanzo, quella dei morti e della combinatoria morte-vita, sacro-profano: alla morte del padre di Marta, Franceso Ajala, risponde al lembo estremo del romanzo la morte della madre di Rocco, al travaglio di Marta,assistita dalla madre che la sorreggeva guardandola con infinita pietàdilaniata…dal mugolìo continuo della figlia, l’agonia del padre, segnalata attraverso l’uscio della stanza attigua da un romor sordo, continuo, come un ruglio di cane aizzato, al

parto di Marta, la morte del padre bocconi sul pavimento.. Al grido acutissimo della madre e di Maria rispose dalla camera della partoriente come un ùlulo lungo, al corpo inerte,fulminato di Francesco Ajala, il neonato già morto, un mostriciattolo, quasi informe, livido, odorante di musco, e su tutto il suono stridulo d’un campanello e un coro nasale, quasi infantile, di donne in frettolosa processione dietro al Viatico e le grida clamorose e gli applausi d’una folla di schiamazzatori, i quali con una bandiera in testa, acclamavano la proclamazione di Gregorio Alvignani a deputato.

Centrale, poi, in tutto il romanzo è il tema del riso, in una gamma di sfumature che va dal sorriso vacuo e incosciente, al ghigno sarcastico e cattivo, alla folle risata a gola piena. E spesso, come accade in molti testi di Pirandello, il riso fa coppia con la follia; la follia ridente, ad esempio, delle due vecchie stolide, madre e zia, con le quali abita Matteo Falcone: acconciate dalle vicine con gli abiti del loro bel tempo…quelli di stoffa più chiara, i più goffi…e stridenti con la vecchiezza, con in capo fiori di carta…foglie di cavolo o di lattuga e capelli finti, le due povere dissennate gongolano ridendo con la bocca sdentata davanti allo specchio. Specchio, riso, vecchiaia, follia, doppio ritornano dominanti e ossessivi nell’intera opera di Pirandello.

A ben guardare, però, dietro la crisi dei coniugi Pentàgora fa capolino un altro tema, lo scontro con la generazione dei padri. Sospesi tra il dovere dell’obbedienza e il desiderio di rottura e trasgressione, incapaci di identificarsi con la morale socialmente dominante, per essere nati in un’età di cambiamento del costume, e tuttavia ancora passivi nella gestione del conflitto, Rocco e Marta sono i primi protagonisti pirandelliani del contrasto tra le generazioni, tra vecchi e giovani.

Forse ha anche ragione N. Borsellino quando legge nell’ Esclusa non solo il romanzo al femminile di una donna che è fuori dal suo ambiente, ma anche quello dell’ossessione paterna, dell’antagonismo con il padre, di Rocco, di Marta, persino di Pirandello, che molto riverserà del padre Stefano nella burbera e monolitica personalità di Francesco Ajala. Più che la reazione di Rocco, indigna Marta la reazione del padre, il cui masochismo viene sadicamente diretto sulla figlia in devastante introiezione del senso di colpa per una colpa che non ha commesso Via per sempre! In galera o sottoterra(…)Giusto è che una figlia insudici il nome del padre! che si faccia scacciare come una sgualdrina dal marito, e che poi venga a insegnarne l’arte alla sorella minore! (…) Giacché la colpa è mia e tua, questa è la nostra condanna, dobbiamo scontarla. Bada! Rientro con te in casa; sarà, d’ora in poi, la mia e la tua prigione. Non ne uscirò che morto!

Oscillante tra la fiera consapevolezza della propria intelligenza e della propria carica sessuale e una combattuta coscienza della propria subalternità femminile, Marta, l’ adultera, vive la condanna di non poter amare gli uomini che la circondano, perché nessuno di loro è in grado di sottrarsi alle discriminazioni legate ai ruoli sessuali socialmente consolidati. Neppure l’amante. Neppure lei. Nessuno dei personaggi, maschili e femminili, riesce a sottrarsi al dominio patriarcale, maschile, e ai condizionamenti che impone all’interno della relazione fra uomo e donna.

Antieroina, antiromantica, incapace di approvare abbandoni passionali, Marta al tempo stesso è incapace di identificarsi nell’orizzonte normativo dell’amore coniugale e familiare. Esclusa dunque da ogni identità e da ogni vitalità, soprattutto amorosa, erotica, sessuale (l’esclusione di chi cede senza concedere). Nella sospensione tra desiderio d’ordine e rabbioso, oscuro istinto di ribellione stanno la grandezza e il limite del personaggio.

(Elisabetta Serafini)

 

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