"CONOSCO, MA NON SENTO"
:IL VIAGGIO E IL SOGGIORNO A ROMA
DI GIACOMO LEOPARDI
L’ospite più illustre di Roma nella prima metà dell’Ottocento è stato senza ombra di dubbio, naturalmente tra gli Italiani, Giacomo Leopardi, quando tra gli stranieri vi soggiornarono per periodi più o meno lunghi, G.G. Byron, P. B. Shelley, J. Keats, H. Stendhal e poco prima, tra il 1786 e il 1788, J. W. Goethe.
Il viaggio in Italia e la meta privilegiata di Roma hanno rappresentato nell’Ottocento romantico europeo una esigenza di conoscenze e di esperienze quasi ineludibile per chiunque si occupasse di cultura nei più vari aspetti. A Roma nel 1821 muore J. Keats, la cui maturità poetica culmina proprio tra il 1818 e il 1820; in Italia muore P. B. Shelley, in un naufragio al largo del Golfo di La Spezia nel 1822, dopo essere rimasto in Italia negli ultimi quattro anni di vita, passati in varie città.; G. G. Byron vi soggiorna tre anni tra Milano, Verona, Venezia e Roma, e ne trova ispirazione per opere altissime, come Il lamento del Tasso; infine H. Stendhal ritorna in Italia sei volte, tra il 1811 e il 1827, proprio durante il periodo del viaggio di Leopardi, e come frutto dell’esperienza fatta prodiga ai lettori, libri di viaggio indimenticabili come Roma, Napoli, Firenze, uscito nel 1817 e ristampato con una consistenza di pagine doppia nel 1827, e Passeggiate romane, stampato nel 1829.
Ognuno di questi scrittori ha già in sé, fortemente fermentati, patrimoni di esperienze esistenziali, culturali, storiche, mondi interi di sogni e di attese, progetti, speranze o delusioni, che sono sul punto di farsi "parola", di liberarsi e chiarirsi, sullo stimolo delle nuove esperienze ricercate o incontrate per scelta del caso. Così il viaggio in generale e per quei tempi un viaggio in Italia e a Roma significava spesso (anche se non sempre, come dimostrano bene i grandi sedentari da Ludovico Ariosto in poi) prendere finalmente contatto con realtà prima solo lette o ascoltate con avidità, immaginate o sognate, fare esperienza de visu e poi continuare ad immaginare e a ricercare con la compagnia della realtà alla fine conosciuta, restituendo così, ognuno in modo personalissimo, una propria immagine del mondo visto e della umanità incontrata. Tanti artisti, altrettanto Italie, mai uguali ad un ipotetico e assurdamente fissato schema di riconoscibilità oggettiva, saranno narrate, musicate, dipinte. Si verifica spesso il caso che una stessa esperienza di viaggio ripetuta in tempi diversi, vicini o lontani, restituisca realtà profondamente differenti anche in presenza delle medesime cose. Spesso, invece, di una conferma, si verifica negli animi più sensibili, una divergenza tra quanto immaginato e quanto realmente visto, perché la fantasia ha creato prima con contorni molto netti delle realtà più nitide e vitali della realtà stessa, che quindi può generare delusione.
Tra i viaggiatori sopra nominati, nel primo trentennio dell’Ottocento c’è anche Giacomo Leopardi che, a venticinque anni, finalmente esce dal "natio borgo selvaggio", coronando così un suo antico desiderio di raggiungere Roma, di trovarvi una sistemazione rispondente alle sue esigenze di indipendenza dalla famiglia, di approdare in una metropoli ricca di storia gloriosa e di una "sperata" intensa vita culturale e di rapporti umani. Partito da Recanati il 17 novembre 1822, giunge a Roma il 23 dello stesso mese, ospite dello zio materno Carlo Antici e atteso già da parecchi mesi dal cugino Giuseppe Melchiorri. Vi rimase sei mesi, fino al 3 maggio 1823 che è la data di rientro a Recanati, "
avendo goduto poco o nulla, perché di tutte l’arti quelle di godere mi è la più nascosta, e niente dolendomi di ritornare al sepolcro, perché non ho mai saputo vivere" (lettera a P. Giordani, 4 agosto 1823). Vi sarebbe ritornato tra l’ottobre del 1831 e il marzo del 1832, insieme a Ranieri, quasi in fuga da Firenze, e poi ancora tra il settembre e l’ottobre del 1833, sempre in compagnia di Ranieri, diretti a Napoli.L’incontro con la Città Eterna avviene in un periodo particolarissimo dell’esperienza umana, culturale, poetica di Leopardi, sicuramente ormai delusa rispetto alle giovanili speranze e ai bisogni di gloria e di intervento generoso all’interno della storia del proprio tempo. Erano appena passati quattro anni da quel suo tentativo di fuga del 1819, testimoniato con alfieriana forza nella corrispondenza fitta e calorosa col Giordani, e Leopardi aveva tracciato un percorso e maturato consapevolezze così profonde e irreversibili che niente poteva essere più come prima. Sappiamo che quel "prima" è in definitiva un tempo assai breve, ma il tempo leopardiano è una dimensione particolarissima che in pochissimi anni è in grado di vivre e rivelare una storia di sentimenti, di pensieri, di indagini e di scoperte di sé e del mondo, a dir poco sconvolgente per profondità e vastità, oltre che per le mirabili rese poetiche. Cerchiamo in breve di tracciare il percorso di questo "prima" del 1822.
Tralasciando tutta la precoce e geniale fase giovanile e fissando come punto di avvio il 1817, sappiamo che il biennio 1817 – 1818 è quello della presa di coscienza della propria condizione di "orrenda e infelicissima vita" e di quella amata e decaduta Italia della Restaurazione; è inoltre quello dell’amicizia col Giordani, che libera in lui un generoso e caldo patriottismo, e dell’intervento teorico nella polemica tra classicisti e romantici, che trova forma nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica; è infine quello dell’avvio dello Zibaldone (il suo libro segreto) e della composizione delle due canzoni civili, All’Italia e Sopra il monumento di Dante, frementi di pietà e di sdegno per le condizioni degradate della patria. Mentre egli si oppone energicamente a tutta la storia politica, ideologica, culturale della Restaurazione, comincia a fondare quel sistema della natura e delle illusioni in cui si contrappongono da una parte la ragione storica e l’egoismo, e dall’altra la natura, le illusioni, la generosità, l’eroismo, la storia antica.
In questo schema di pensiero, in elaborazione negli anni fino al 1822 – 23, il mondo antico è sentito ed interpretato come deposito rassicurante di felicità, di virtù attive ed appaganti, di contatti benefici con la natura, di eroismi generosi, che permettono all’amore di sé di divenire amore per gli altri, di vita veramente autentica e ricca di sentimenti, mentre il mondo contemporaneo e la sua storia non sono altro che negazione di spirito vitale, noia, appagamento interessato nell’egoismo individuale, gretto e miope. In questa fase del pensiero e del dinamico farsi della sensibilità leopardiana assistiamo a quel tentativo di fuga del 1819 che non va a buon fine.
All’interno della crisi di quell’anno e di quello successivo egli, con un evidente bisogno di compensazione al proprio profondo disagio esistenziale e sentimentale, scrive i piccoli idilli, vero e proprio risarcimento ai dolori della vita e della storia. Nel 1820 pubblica la canzone Ad Angelo Mai, che è ancora un messaggio di forte impegno civile e che lo colloca in sdegnato contrasto con il "secol di fango", con un popolo e una storia che sembrano essersi del tutto allontanati dall’esemplarità del passato. Forse, pensa il poeta, la voce riscoperta di Cicerone (il De re pubblica ritrovato dal card. A ngelo Mai) potrebbe operare il miracolo di stimolare a nuova vita gli annoiati e inerti petti italici. Nel 1821 – 22 lo Zibaldone ha uno sgorgo di elaborazione impressionante di oltre 2400 pagine di pensieri, molti dei quali dedicati a radicare in profondità la persuasione del sistema della natura, delle illusioni, del piacere, dell’esigenza tutta terrena e laica per l’uomo di crearsi le dimensioni di infinito e di terreno. Accanto a questa imponente costruzione di pensiero vengono alla luce sei canzoni, un vero e proprio ciclo poetico: Per le nozze della sorella Paolina, Per un vincitore nel gioco del pallone, Bruto Minore, e poi proprio nel 1822, L’inno alla Primavera, L’ultimo canto di Saffo e l’inno Ai Patriarchi. Queste liriche, che pur sempre all’inizio sono di impegno civile e vedono ancora nel mondo antico esemplari esempi di eroismo e generosità, rispetto ad un presente smarrito ed abulico, cominciano a far intravedere squarci paurosi anche dentro la storia antica. Bruto a Filippi muore suicida perché non può sopportare che la virtù sia solo un vano nome e non una realtà e che la libertà non sostanzi più la vita del singolo e dei popoli, e Saffo, la poetessa più ricca di sentimenti e di amore di vita della grecità, si uccide a Leucade denunciando l’inganno del destino degli dei e l’insensibilità della natura nei confronti del proprio dolore. Bruto e Saffo sono soli nel loro doloroso addio alla vita e le loro ultime voci, gridata la prima, più pacata la seconda, iniziano a sfaldare due miti leopardiani, a lungo meditati e accarezzati, quello di un mondo antico libero, eroico, generoso e democratico, e quello di una natura intesa come madre confortatrice dei mali che il destino assegna a tutti gli uomini. La poesia, con la sua straordinaria forza intuitiva, precorre il pensiero nella scoperta terribile, che poi, nella seconda metà del 1823, troverà conferma nelle riflessioni del ripreso lavoro in ben 1400 pagine dello Zibaldone e nella composizione delle Operette Morali dell’anno successivo, il 1824. Non bisogna dunque dimenticare che L’ultimo canto di Saffo viene composto in sette giorni nel maggio 1822, sei mesi prima della partenza per Roma, e che il Dialogo della Natura e di un islandese è scritto a fine maggio 1824, appena un anno dopo il ritorno a Recanati.
Quella descritta è dunque la condizione di Leopardi in limine alla sua uscita da Recanati, e ai vari livelli della sua coscienza l’impresa gli produce sentimenti vari e in contrasto, tra i quali prevale una sorta di indifferenza, preannuncio e premessa di una delusione, e la consapevolezza persuasa della inutilità di ogni sforzo per trovare altrove un altro se stesso, ormai assuefatto ad uno stato di "seconda natura" nella vita solitaria e dolente di Recanati, o un mondo in grado di accoglierlo tenendo conto delle sue esigenze e soprattutto di amarlo. Il mondo (Roma) o Recanati stanno diventando per lui sfondi indistinti ed equivalenti di una condizione dolorosa dell’uomo, che si sovrappone alle ormai poco resistenti speranze di azione, di gloria e di vita. Qualche residuo di volontà di impegno e di partecipazione sopravvive forse solo a livello esistenziale, ma non trova più sostegno nella fiducia del pensiero in quell’agonismo eroico-giovanile, eroso senza scampo dalle vicende interne del macrocosmo dell’anima.
Le vicende del viaggio e del soggiorno sono consegnate alle lettere al padre Monaldo, al fratello Carlo, alla sorella Paolina, alla madre, con toni ora vivaci, ora autoironici, ora affettuosi e commossi, ora concitati, ma dentro questa varietà la voce del "vero" Leopardi è quella di chi, quasi timoroso, verifica un itinerario con il presentimento di un’amara delusione. Due giorni dopo l’arrivo a Roma, nella lettera al fratello Carlo del 25 novembre 1822, confessa il primo impatto-scontro con la grandezza della città. Roma, da vicino e con l’animo stanco, gli risulta opprimente e fastidiosa: "
Delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta e noia dopo il primo giorno". Non si tratta qui tanto di una reazione causata da stanchezza, da disorientamento di fronte al nuovo, da incapacità di adattarsi, quanto della consapevolezza, nella distinzione che egli opera tra conoscenza e sentimento, che qualunque cosa, che non sia accesa da sentimento vivo e sincero, non può che lasciare indifferenti e generare noia.Disorientante è anche la casa Antici che lo ospita per "
l’orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile", tanto che si sente "solo e nudo in mezzo ai miei parenti", triste per "l’essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine". Forte è il contrasto che lo abbatte tra l’essere e l’apparire, tra la sincerità e la finzione nel rapporto con gli altri, se arriva a scrivere "non sono più buono da niente, non ispero più nulla, voglio parlare e non so che diavolo mi dire, non sento più me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua". I primi uomini dell’ambiente colto romano che incontra non lo aiutano a risollevarsi, come il Cancellieri, da lontano molto stimato per la sua erudizione, che ora gli appare "un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo sulla terra" e questo illustre rappresentante del vuoto culturale non è che il perfetto esemplare di una intera classe di piccoli esseri verbaioli, enfatici, vanitosi, cultori della antiquaria e di una smania archeologica che non può neppure sostenersi su una decorosa conoscenza del latino per non parlare del greco, da tutti o quasi ignorato.Sempre a Carlo riferisce anche "
le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco" e che "al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi… e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e scostumatezza… è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza" (lettera a Carlo del 5 febbraio 1823). Al contrario risalta spesso nelle accorate parole al fratello il desiderio di affetti e di compagnia e non trovandoli arriva a dire "il mondo (Roma) non mi par fatto per me: ho trovato il diavolo più brutto di quello che si dipinge". Al padre che vuole essere informato sull’ambiente letterario romano risponde il 29 novembre 1822 "ella stia coll’animo riposato sul conto mio, le dirà che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine, nullità e minore malvagità di quella che io m’aspettassi… mi riprometto di scoprire almeno una gran parte degli artifici che s’adoperano per sedurre, schernire e perdere i giovani e ogni sorta di uomini".Due giorni gli sono stati sufficienti a giudicare Cancellieri un coglione e sei per una valutazione così definitiva sull’intero ambiente romano. In seguito dirà anche di più e di peggio e questo certo non per "
un carattere più ostinato che volubile, molto più disprezzatore che ammiratore". E’ vero che Leopardi si sente fortemente insofferente e la delusione va soprattutto ricercata nel fastidio innato verso la falsità, le finzioni salottiere, le apparenze da commedia. Falsa grandezza e falsi splendori, che celano una desolante miseria, unita ad un intollerabile provincialismo, sono ciò che egli vede e sente nei monumenti e nei colloqui con gli uomini. Se Stendhal era riuscito a cogliere di Roma grandezza e miseria, rivelando delusione per Porta del Popolo, inferiore e brutta rispetto a quelle delle città europee, ma esaltandosi dinanzi al Colosseo e alla vista dell’Appia all’uscita da Porta San Giovanni, Leopardi, venendogli meno il soccorso delle illusioni e della bellezza, resta in quei mesi sempre più assorto in un altro tremendo amore, quello del vero, nei sentimenti come nei comportamenti, che lo consegna ad una riflessione solitaria con se stesso, vivendo quindi un suo itinerarium interiore. Per queste ragioni le ipocrisie, le miserie, l’ignoranza, la falsa cultura e la falsa grandezza degli uomini e delle cose lo vedono divenire freddo e distaccato come un filosofo antico: "Tale è la sorte di chi vive nelle grandi città, dove tutto è falso, e questo falso non è bello, anzi bruttissimo" e poco prima "ma la peggiore cosa del mondo… è trovarsi privo del bello e del vero, trattare, convivere con ciò che non è né bello, né vero" (Zibaldone 2654 del 13 dicembre 1822). Purtroppo, anche se doloroso, solo il vero può per lui ancora sostenere la dignità umana.Un tono sicuramente più scherzoso è quello che impiega per spiegare la sua delusione alla sorella Paolina nella lettera del 3 dicembre 1822: "
tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile" e aggiunge "Tutta la popolazione di Roma non basta a riempire la piazza di San Pietro. La cupola l’ho veduta io, colla mia corta vista a 5 migla di distanza, mentre io ero in viaggio, e l’ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce, come voi vedete di costà l’Appennino". Il contesto scenografico offerto da Roma non lo consola del disagio che prova se arriva a dire: "Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero dei gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense e queste strade per conseguenza interminabili sono tanti spazi gittati fra gli uomini invece d’essere spazi che contengano uomini". Il suo bisogno degli altri, in una Roma così falsa e che sopravvive alla gloria e all’ormai vana grandezza di un tempo, si trova di fronte spazi immensi, popolati e vissuti da una umanità ordinaria, anzi misera. Allora con una ironia raggelante afferma: "Se gli uomini avessero bisogno di abitare così al largo, come s’abita in questi palazzi e come si cammina in queste strade, piazze, chiese, non basterebbe il globo a contenere il genere umano".Ritornando ai letterati, di cui il padre chiede con insistenza notizie, Leopardi li vede ora da presso, sorridenti e mediocri, senza più la mistificazione della lontananza: il Cardinale Angelo Mai, il numismatico Alessandro Visconti, l’abate Canova, l’abate Missirini, il cavalier Marini, l’abate Cancellieri. Tra l’irato e il divertito scrive: "
Pretendono di arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani in Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria… Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, tutto ciò è straniero in Roma e par un gioco da fanciulli a paragone del trovar se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa… Tutto il giorno ciarlano e disputano e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti; così vive e fa progressi la letteratura romana" (lettera al padre Monaldo, 9 dicembre 1822). Ripete lo stesso giudizio sferzante al fratello Carlo (lettera del 16 dicembre 1822): "L’antiquaria messa in cima del sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo… Letterato e antiquario in Roma è perfettamente tutt’uno. S’io non sono antiquario, s’intende ch’io non sono un letterato, e che non so nulla" e lo ripeterà al cugino Melchorri, al ritorno da Roma: "conosco di aver fatto molto male a voler pubblicare quelle osservazioni in Roma, dove, fuori dei sassi, non si capisce altro" (lettera a Melchiorri del 27 giugno 1823). Quello che lo infastidisce di più è l’ostentazione di cultura che si risolve solo in apparenza, in un sembrare che genera invidie e dicerie, anche nei cosiddetti "maggiori", come il cardinale Angelo Mai, che "è gentilissimo con tutti, compiacentissimo in parole, politico nei fatti; mostra di voler soddisfare a ciascuno, e fa in ultimo il suo comodo".Ben diversi gli si rivelano alcuni stranieri residenti in Roma, come il Niebuhr, il Bunsen, il Reinhold, lo Jacopsen, il Tiersch, studiosi seri che producono opere solide e ben pensate. Conversare con loro gli risulta veramente piacevole ed è un vero sollievo riceverne attestati di stima. E mentre il fratello Carlo insiste a consigliargli di godere di Roma, di uscire mescolandosi alla folla, di ricordare cosa ha lasciato a Recanati, egli risponde: "
…da che sono in Roma, io non ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, esteriore o interiore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò che da quando misi piede in questa città, mai una goccia di piacere non è caduta sull’animo mio" (lettera al fratello Carlo del 6 dicembre 1822). La sua riflessione ne individua i motivi generali e profondi nel fatto che: "in una grande città l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempire, non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto fra essa e lui. Da questo potete congetturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quello che si prova nelle città piccole: giacché l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente sede nelle grandi città, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luoghi, si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degl’individui, che non si riflette in verun modo nell’interno". La lettera, importantissima, contiene uno sfogo che si alimenta di motivi antichi del suo pensiero e di polemiche filosofiche di matrice settecentesca, ribadite anche nello Zibaldone di quel periodo (come le riflessioni espresse nelle pagine 2405/06 e 2653/4). La differenza è che ora, rispetto alla teoria astratta e alle riflessioni, l’esperienza di Leopardi è diretta, sofferta e concentrata sugli snodi del vero e del falso, del sembrare e dell’essere, del visivo e del pensato, per cui la monumentalità, la magnificenza pretenziosa, la vita limitata al solo vedere e non sentire, non possono essere accettate, così come non sopportabile è: "la noia dipinta sul viso di tutti i mondani di Roma… costretti a fabbricarsi d’intorno come una piccola città, dentro la grande", vanamente tentando di "attirare gli occhi degli altri… e veramente queste tali città non sono fatte se non per i monarchi, o per uomini tali che possano smisuratamente soverchiare la massima parte del genere umano" (lettera a Carlo del 5 febbraio 1823). Anche gli spettacoli a teatro, salvo qualche rara eccezione, e i divertimenti "sono più noiosi qui che a Recanati" e i resoconti di Cancellieri sulle inclinazioni mondane e sui fasti dell’alto clero, sino ai cardinali e al papa, con tresche di ballerine, attrici e principi, gli procurano un forte ribrezzo, che accompagna quello che giorno dopo giorno sperimenta in relazione alla vanità e all’ignoranza. La "repubblica delle lettere" tanto sognata col Giordani non gli si rivela che una farsa patetica di finzioni, ipocrisie e meschinità. Intanto è anche costretto dall’ambiente romano a riprendere la filologia per farsi notare e produrre qualcosa di degno (pubblicando per le Effemeridi letterarie due articoli sul Filone di Aucher e sulla Cronica di Eusebio del Mai), cercando così di essere apprezzato almeno da quella scarsa colonia di filologi stranieri che rappresenta l’unica compagnia romana a cui tenga. Nel frattempo riceve l’incarico di compilare il catalogo dei codici greci presso la biblioteca Barberiniana e la proposta dell’editore De Romanis di tradurre tutta l’opera di Platone. Può essere questa finalmente l’opportunità reale di vivere autonomamente dal padre e lontano dall’antico "carcere", anche se presto il progetto si raffredda fino a cessare, come gli altri, quello ad esempio di ricevere un impiego pubblico come Cancelliere del Censo, o addirittura quello di poter emigrare all’estero al seguito di qualche personaggio di rilievo. Progetto si alternano a progetti e mostrano una certa "vivacità" all’inizio del 1823, anche se il giudizio negativo di fondo sull’ambiente romano resta. Al chiudersi anche di queste ben limitate possibilità si fa largo, come risulta dalla lettera a Paolina del 28 gennaio 1823 e da vari spunti dello Zibaldone (solo 41 pagine si ascrivono al periodo romano), la certezza della vanità della vita e dell’infelicità perché "la causa originaria e continua della infelicità umana è la società… Dunque se l’uomo vivesse secondo natura sarebbe felice" (Zibaldone n. 2684 del 1° aprile 1823). Nelle altre pagine dello Zibaldone del periodo romano si rintracciano molte riflessioni politiche e sociali intonate ad un pessimismo senza più illusioni, contrarie di gran lunga agli entusiasmi del liberalismo laico e cattolico contemporaneo, dimostrando così come Leopardi rifletta soprattutto sul vero non mistificato, né consolato.Finalmente giungiamo "
all’unico piacere che ho provato a Roma", quello delle lacrime, in conseguenza della visita al sepolcro del Tasso a S. Onofrio, sul Gianicolo, narrata nella celebre lettera del 20 febbraio 1823 al fratello Carlo, di sicuro il più alto e poetico testo del soggiorno a Roma. Leopardi che, come abbiamo detto, si sente sostanzialmente estraneo alla città, si muove intenzionalmente in una fredda mattinata invernale per rendere omaggio alle ceneri di un vero uomo grandissimo, quel poeta della Gerusalemme che aveva "pianto sulle sciagure umane" e che egli, sentendolo sempre vicinissimo al proprio soffrire, ha già celebrato nella canzone Ad Angelo Mai, con i versi dolorosi e malinconici: "O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa / tua mente allora, il pianto / a te, non altri preparava il cielo…". Giunge lì, di fronte al quella "pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo posta in un cantoncino d’una chiesuccia" e comprende in pieno il contrasto tra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura, confrontando tra sé quella tomba così umile e per questo così grande, e la magnificenza e vastità dei monumenti romani, eretti per celebrare delle nullità o per testimoniare una dignità svuotata ormai di ogni pur minima risonanza interiore. A riprova immediata di ciò, prope magnos Torquati cineres, scorge il maestoso monumento funebre del poeta arcade Alessandro Guidi (già definito da lui nello Zibaldone "emulo impotente di Pindaro") ed esclama: "appena soffrii di guardare il suo monumento". Il suo è qui un pianto che scaturisce, finalmente, dal "sentire", trovandosi accanto ad un morto che è nel suo animo così vivo, al confronto di tantissimi viventi già morti, che lo hanno infastidito e incupito in quella stessa città. Allora sembra gridare con scrittura fremente: "ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lacrime, lo spazio di due minuti?" (la voce sembra dirigersi, seguendo una strana rotta, anche a M. Twain).Ora sappiamo che quei due minuti hanno rappresentato forse uno dei rarissimi momenti positivi del soggiorno romano di sei mesi.
Ma anche la salita al sepolcro, il percorso compiuto faticosamente per via S.Onofrio, permette a Leopardi di vedere e sentire un’altra Roma, non quella sanfedista trasteverina (cantata mirabilmente da G. G. Belli nei sonetti, caratterizzata da forti passioni e superstizioni, che sopravvive in mille modi all’ombra del papa-re, folcloristica e spavalda, ma sostanzialmente misera), né quella oziosa, dissipata e corrotta dei palazzi e delle vie aristocratiche e borghesi, bensì la città che in fondo egli cerca, con gente che vive di lavoro e di professioni artigianali utili, in modo raccolto, ordinato, socievole, con maniere semplici e umane, con costumi di vita fondati sul vero e non sul falso, con uomini che "
vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione".Questa è di sicuro la più bella e gratificante "passeggiata romana" di Leopardi.
Ci si può chiedere, per concludere, quale ricordo e quale vantaggio Roma abbia lasciato in lui. Una risposta ci viene subito offerta, in modo lucido e sintetico, proprio dal poeta: "
Roma mi ha fatto almeno questo vantaggio di perfezionare la mia insensibilità sopra me stesso, e di farmi riguardare la mia vita intera, il mio bene, il mio male, come vita, bene, male altrui" (lettera a Carlo del 22 gennaio 1823). Un’ipotesi è possibile aggiungere, alla luce di tutta l’esperienza poetica e umana successiva del poeta e nella convinzione che in Leopardi nulla della vita si perde, che tutto invece, pur mutando ed evolvendosi nei nuovi movimenti del pensiero e del sentimento, in fondo rimane, come rimpianto, ricordo o illusione. Le care illusioni e i ricordi, rafforzati da persuasioni sempre coerentemente vissute e cantate, le ritroveremo (e non era lui a rievocarle nelle Ricordanze?) ancora in limine dell’ "ultimo viaggio" e con il coraggio dell’ultimo messaggio, quando, rivolto al fiore "consolatore dei deserti", la ginestra, potrà ancora dire: "…Anco ti vidi / de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade / che cingon la cittade / la qual fu donna de’ mortali un tempo / e del perduto impero / par che col grave e taciturno aspetto / faccian fede e ricordo al passeggero". Quel passeggero era stato nel 1822 – 23 proprio lui, quasi sempre sdegnato e disgustato, che però aveva dentro di sé una città, che non vedeva intorno a sé, ma che poteva vivere in modo grande e nel tempo solo nell’interiorità e nella poesia, con la stessa consistenza di ogni cosa sottratta alla fugace e squallida realtà, proprio come quel suo "infinito" del 1819 o quella sua "donna astrale" cantata al rientro a Recanati in Alla sua donna (1823).Romeo Romei
Bibliografia essenziale: