Rinnovamenti metrici ottocenteschi fino alla sperimentazione di

Carducci, Pascoli e D’Annunzio

 

Il primo Ottocento mostra da un lato una tendenza metrico-ritmica che ricorre a forme chiuse, con accenti fissi e fortemente cadenzati, perché intende così trasmettere con l’apporto della tradizione una visione corale del canto inteso come veicolo di grandi valori di patria e di fede (ad esempio, Manzoni in Marzo 1821, strutturato con doppie quartine di decasillabi), dall’altra un impiego delle forme insieme rispettoso e innovativo, proponendo soluzioni di grande interesse formale, come l’endecasillabo sciolto presente nel carme I Sepolcri di U. Foscolo del 1807. La verità è qui data dal diverso disporsi degli accenti e il carme si articola nella complessità dei contenuti senza variazioni strofiche o di rima. Foscolo vi accentua le novità che aveva già anticipato nei sonetti maggiori, inaugurando rapporti ritmici-sintattici in grado di rompere in ampiezza le coincidenze tra verso e membri sintattici. Si può dire che per questo uso originale, quello foscoliano sia un endecasillabo del tutto nuovo.

Leopardi, già nella Canzone all’Italia del 1818, come ha dimostrato l’analisi di M. Fubini e di E. Bigi, poi in modo più evidente nei grandi idilli fino al canto-testamento La Ginestra, offre l’esempio di canzone libera, nella quale l’interiorità sia di pensiero che di sentimento si rivela attraverso una strutturazione di canto che risponde ad esigenze proprie e non date, con pause, timbri, impiego raro di rime e preferenza di assonanze e consonanze, rispondenti in pieno alla ricerca di una verità del dolore dell’esistere che doveva essere indagata e rivelata, perché l’uomo e la società potessero crescere nella consapevolezza del limite comune. I contenuti forti e possenti, le problematiche della vita e della morte, il valore della storia e della poesia, la verità della condizione umana, presenti nella poesia foscoliana e leopardiana, trovano risoluzioni in forme rinnovate, ma ancora dentro la tradizione.

Carattere e aspetti di vera e propria sperimentazione in limine ad un rinnovamento rivoluzionario del verso e della metrica si evidenziano nel secondo Ottocento nelle Odi Barbare (1877, 1880, 1881) di G. Carducci, nella sincronica poesia pascoliana da Myricae (1891) in poi, nella inesauribile sperimentazione dannunziana da Canto Novo (1882) ad Alcyone (1904), dove troviamo la strofa lunga.

G. Carducci nell’intera sua opera poetica, come "scudiero dei classici", ma in fondo mosso da spinte romantiche e predecadenti, in polemica col proprio tempo gretto e rinunciatario agli ideali forti rintracciabili nella storia antica e in quella comunale, rinascimentale, risorgimentale ed infine in sintonia con l’Italia Crispina, sperimenta tutti i versi della tradizione italiana, riproponendo le forme in poesia e studiandole come metricologo. Nelle Odi Barbare offre un notevole apporto al rinnovamento della metrica proponendosi di imitare il verso greco e latino, rigettando l’istituto della rima e allungando nell’esametro e nel pentametro la misura del verso, mutandone il ritmo. Per formare l’esametro adattò, unendoli insieme, veri versi italiani (quinario e settenario nella prima parte, ottonario e novenario nella seconda) creando così ritmi nuovi, rompendo il sistema chiuso tradizionale con le sue prevedibili armonie, dando importanza decisiva agli ictus distribuiti con duttilità di schemi.

G. Pascoli porta ancora più avanti la sperimentazione, pur non arrivando al verso libero e senza misura fissa. In Myricae, nei Poemetti, nei Canti di Castelvecchio, la poesia pascoliana apparentemente impressionistica, è di fatto simbolica, perché il mondo delle piccole cose, evocato come un rifugio edenico per trovare riparo alle angosce della storia e della vita, trasmette in fondo inquietudine, a causa dell’isolamento con cui si manifestano la cose e per l’ossessiva riproposizione di pochi e ricorrenti elementi materiali ed umani, suggerendo il mistero che ci circonda e dando vita segnica ad inconfessabili angosce di natura inconscia. Uccelli, nidi, fiori, siepi, stelle del macrocosmo, suoni di campane sono simboli di pulsioni istintive, che hanno base nelle ossessioni e nelle fobie del poeta e che sono riconducibili a desideri di regressione e di rimozione. Per un mondo così apparentemente quieto e sereno, ma in realtà turbato fortemente da insicurezze e paure soprattutto della morte, la voce del fanciullino-Pascoli impiega i versi tradizionali, dal trisillabo all’endecasillabo, i metri più vari, dall’ode saffica alla terzina dantesca al madrigale, ma i ritmi sono profondamente rinnovati da scansioni arbitrarie, da forti cesure che spezzano la compattezza accentuativa, da una punteggiatura ossessiva, da esclamazioni, da dialoghi. Ai rapporti logici nella sintassi lirica si sostituiscono quelli analogici, con paratassi accentuata e con un rilievo molto forte dato al lessico a cui si richiede il massimo di responsabilità nel dare significati. Potremmo ancora aggiungere il ruolo concesso ai timbri, cioè all’impasto fonico-simbolico delle parole, che diviene la voce immaginata delle cose in forma evocativa o onomatopeica.

G. Contini ha magistralmente parlato di coesistenza nel verso pascoliano di linguaggio comune o grammaticale, di linguaggio pregrammaticale (l’onomatopea naturalistica) e postgrammaticale (ad esempio, le parole dialettali del mondo contadino). Il verso e i metri diventano misura interiore, dando l’illusione mitica di un modo del tutto autentico di leggere la realtà nei suoi più inediti segreti, ritmata da rinnovate misure di linguaggio e di ritmi.

G. D’Annunzio, con il suo credo che il Poeta sia l’unico creatore di bello e che il Vero sia tutto, compie tra Ottocento e Novecento la sperimentazione più estesa riguardo al verso e ai metri, giungendo quasi a tentare versi liberi e alla strofa lunga (cfr. Laus Vitae), in cui i metri vengono impiegati in modo assai prossimo al verso libero anche se non rinunciano alla rima, per lo più baciata, e alla sonorità.

Egli, creatore inesausto di mondi intrisi di estetismo e superomismo, è costretto ad un’operatività incessante in tutte le forme e in tutti i generi della letteratura perché intende fare della vita e di ogni cosa una opera d’arte. D’Annunzio, essendo in grado di cogliere e di impiegare, spesso strumentalmente gli stimoli e gli apporti più avanzati della cultura europea, dalla musica al pensiero filosofico, considera però la parola poetica come il mezzo privilegiato per costruire un mondo a misura di spiriti aristocratici, al li là del bene e del male. E’ sempre evidente in D’Annunzio la ricerca di nuovi rapporti poetico-musicali, attraverso i quali la realtà possa essere reinterpretata (cfr. La pioggia nel pineto) e la musica è per lui non tanto nei suoni (cfr. Il Fuoco), quanto nei silenzi che precedono e che seguono il suono, stabilendo un rapporto tra parola e silenzio che doveva andare oltre gli schemi tradizionali. Da qui deriva la sua esaltazione della musica di Wagner, nuova e lontana dalle cadenze melodrammatiche, perché anche il poeta, mentre accoglie i metri tradizionali, li dissolve in un canto ininterrotto che esalta il valore esclusivamente fonico della parola, andando così all’essenza delle cose ricercate e ritrovate.

 

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